Lingua, Legge, Giurisprudenza, Babele
Anni or sono Giuffrè pubblicò il mio lavoro “La prova orale dal colloquio informativo al controesame”. La pubblicazione diede evidentemente buon risultato visto che tempo appresso Gaetano Giuffè mi propose di pubblicarne la versione riveduta. Mi misi all’opera, aggiornai la giurisprudenza e la dottrina citate, aggiunsi alcune nuove considerazioni e il lavoro ebbe la seconda edizione.
Ammettiamo che, adempiuto al compito affidatomi, io avessi consegnato all’Editore – che colgo l’occasione per salutare affettuosamente – un lavoro dal titolo “la prova orale dal colloquio informativo al controesame” il cui contenuto riguardasse però il diritto processuale inglese, … ebbene sono sicuro che Gaetano mi avrebbe detto “Domenico non ci siamo, ti ho chiesto una rivisitazione del precedente lavoro e tu lo hai modificato”. E, se non fosse per quanto segue, sarei stato convinto che, ove fosse sorta una contestazione legale, avrebbe avuto ragione in ben tre giudizi.
Infatti quella che mi era stata chiesta era una innovazione rispetto al testo pubblicato; quella cui in ipotesi avrei proceduto ne sarebbe stata una modificazione.
Questo almeno dice la lingua nella quale “significante” (insieme degli elementi fonetici e grafici che forniscono la parte fisicamente percepibile del segno linguistico) e “significato” (che ne è il corrispondente concetto mentale) coincidono e devono coincidere. E, infatti, abbiamo ammodernato due parole chiarissime quanto a tale coincidenza che dall’origine significano (quanto a innovare) introdurre l’aliquid novi e (quanto a modificare) cambiare, mutare, trasformare il modus, ossia la misura o la maniera.
Grazie a Dio chi scrisse le nostre leggi di altri tempi – oltre che giurista, sociologo e filosofo – era (anche) un ottimo linguista e pertanto sapeva trarre accurate e appropriate distinzioni.
Questa dote gli giovò certamente anche quando redasse l’articolo 1120 del codice civile elaborando due commi che consentirono per decenni di distinguere tra innovazioni consentite e innovazioni non consentite. Va ammesso che non fu da meno il legislatore che nel 2013 introdusse l’articolo 1117 ter rubricandolo “Modificazioni delle destinazioni d’uso” lasciando pochi dubbi sul fatto che queste – le modificazioni – fossero qualcosa di più delle innovazioni viste le maggioranze imposte per farle deliberare.
Tiro le somme dalle premesse.
Con ordinanza n.10077/19 depositata il 10 aprile, la VI sezione civile della Cassazione in materia condominiale ha stabilito che la variazione della concreta destinazione della cosa comune comporta innovazione, non modifica. E precisamente che La trasformazione del giardino comune, realizzata mediante abbattimento dei muretti e delle essenze verdi, livellamento del suolo e spostamento dei punti di illuminazione, in funzione della nuova destinazione dell’area a parcheggio, costituisce innovazione e come tale deve essere assoggettata al regime previsto dall’art. 1120, primo e secondo comma, c.c.. Ossia non al regolamento delle modificazioni.
Orbene: si aveva un “giardino” (significante e significato non lasciano dubbi sulla natura della cosa; ne lasciasse, verrebbero esclusi dalla presenza di “essenze verdi” e “dislivelli” incoerenti con altro genere di superficie) … se ne tolgono piante, ondulazioni, muriccioli che differenziano gli spazi, illuminazione (evidentemente) finalizzata…e là dove si passeggiava o quanto meno camminava ora è una “area di parcheggio”. Sintema, questo, il cui significante e significato avrebbe potuto non essere conflittuale con la generica equazione “cosa comune= cortile condominiale”, ma, se ancora vale l’italiano e se esso corrisponde a quello valorizzato nelle leggi, non consente l’assimilazione al giardino.
Ecco perché – semmai ci fosse stata una lite giudiziaria tra me e Gaetano Giuffrè sulla ipotetica riedizione – sarei stato convinto che avrebbe vinto lui: per me, l’uso corrente l’italiano sarebbe valso a farla qualificare “modificazione”, laddove l’italiano in uso dalla giurisprudenza – e ci si deve inchinare all’ubi maior minor cessat – avrebbe potuto far giungere a ben altra conclusione.
Peccato perché la confusione delle lingue è compatibile solo con la “babele”.
Avv. Domenico Carponi Schittar