Uso delle Armi, Quando è Veramente Legittimo ?
Non è sicuramente il momento storico migliore per affrontare un tema come questo e soprattutto per tentare di dare una giustificazione all’uso legittimo delle armi nel contesto sociale odierno visto che quella giuridica c’è ed esiste ormai da oltre ottant’anni.
Tuttavia appare opportuno esaminare l’ultima decisione, in ordine di tempo della Corte di Cassazione che scardina ancora una volta l’art 53 c.p. delegittimandone definitivamente la sua esistenza sulla scorta dei latrati sempre più insistenti di un’opinione pubblica ormai ostaggio delle ideologie dello scandalo e di chi “grida più forte”, che tanto vanno di moda oggi.
Ricordo ai tempi dell’università la diatriba etica tra il dovere di difendere lo Stato e l’ordine costituito e la tutela del bene della vita e/o comunque degli altri beni costituzionalmente rilevanti con cui tale dovere spesso si scontra.
Occorre puntualizzare l’attenzione sul concetto – sconosciuto ai più e troppo spesso bistrattato – che l’agente di PG “deve” e non “può” far ricorso all’uso delle armi quando la situazione lo richiede perché seppur con l’intenzione di nuocere nel minor modo possibile, in determinati casi, il bene costituzionale contrapposto deve cedere – ebbene si – di fronte all’esigenza di difendere l’ordine, lo Stato e il nostro fondamento costituzionale.
Peraltro a pensarci ciò è anche logico se vogliamo che il concetto di deterrenza continui ad avere un senso.
Il che, si badi bene, è ben diverso dal difendere a prezzo della vita altrui il proprio patrimonio. Ma questo è altro tema e richiede altra e differente sede.
Orbene sulle corrette modalità d’uso dell’arma di servizio arriva la recente sentenza della Cassazione, che nel 2019 assolve il poliziotto dalla cui pistola partì accidentalmente il colpo mortale.
Il monito della Suprema Corte giunge da lontano nello specifico dal 2012 sulla statale 223 che da Siena porta a Grosseto. Una Golf trasporta un carico di droga e la polizia, che è venuta a saperlo grazie ad alcune intercettazioni telefoniche, allestisce un posto di blocco. L’auto si ferma e viene circondata da quattro poliziotti, mentre altri quattro restano nei paraggi. Per eludere l’azione di uno degli agenti che tenta di strappare le chiavi dal cruscotto e spegnere il motore, il conducente dà gas e sterza colpendo alle gambe il capo assistente. Dalla sua pistola parte il colpo mortale.
Il GUP di Grosseto condanna forse troppo sbrigativamente il capo assistente per omicidio colposo e la decisione viene ribaltata in appello e confermata in Cassazione.
Peraltro la sentenza di prime cure denota scarsa conoscenza tecnica delle dinamiche di fuoco delle armi comuni da sparo confondendo, con sbrigativa noncuranza, tra azione sulla sicura e azione sul cane dell’arma che, dal punto di vista della sicurezza sono due concetti antitetici. Peraltro laddove stabilisce aprioristicamente che “la pressione da esercitare sul grilletto per esplodere il colpo è più leggera” senza sicura inserita e col cane alzato denota totale assenza di cognizione, per usare un eufemismo, che presta facile il fianco all’impugnazione.
Nondimeno a parere di chi scrive seppur giusta l’assoluzione dell’agente di PS non appaiono egualmente giuste le motivazioni che sostengono la sentenza perché la Cassazione, se chiarisce correttamente che non fu omicidio colposo chiudendo la vicenda giudiziaria, non fa luce – anzi oscura i principi – sulle corrette modalità d’uso dell’arma di servizio. Pubblicate le motivazioni: i giudici spiegano perché abbiano respinto il ricorso dei parenti del defunto e confermato l’assoluzione dell’assistente di polizia dalla cui pistola partì il colpo mortale. Perché, anche se non è regola generale agire con la sicura disinserita e il colpo in canna come invece accaduto, per un operatore di polizia è utile mantenere una prassi omogenea. Ciò serve a “non ritrovarsi in una situazione di incertezza ed evitare errori”. E l’assistente capo, suo malgrado coinvolto, era solito non tenere la sicura inserita “perché esperto nell’uso delle armi”. Lo dimostra quanto accaduto nel 2002, dieci anni prima dell’evento in esame. L’agente aveva sventato, pistola in mano, una rapina a mano armata senza sparare neppure un colpo. In più stavolta era capo pattuglia e in una posizione rischiosa.
In altre parole l’operato dell’agente di PG si giustifica non come avrebbe dovuto sulla base dell’uso legittimo dell’arma di servizio ex art. 53 c.p. ma su una prassi autorevolmente riconosciuta.
La giurisprudenza della Suprema Corte di fatto sta eliminando dal mondo del diritto l’art. 53 c.p. ridefinendo sentenza dopo sentenza il campo di uso delle armi da parte delle forze dell’ordine.
Non c’è un diritto assoluto del pubblico ufficiale a non essere punito qualora faccia ricorso alle armi per effettuare un arresto: con la sentenza 26412/19 la Cassazione definisce il campo di uso delle armi da parte delle forze dell’ordine richiamando a sostegno la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che all’art. 2 “non configura un’esimente in favore del pubblico ufficiale che ricorra alla forza armata per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta” che significa garantire il diritto alla vita “del soggetto passivo dell’intervento armato” e ritenere a priori illegittimo ogni e qualsivoglia uso dell’arma, ponendosi in evidente contrasto con l’art. 53 del nostro codice sostanziale.
Si dice che in Italia non sia consentito sparare per “interrompere la fuga dei probabili autori di un furto” a meno che la fuga non causi pericoli ad altre persone. Se invece non esiste, o sia esaurita, la situazione di pericolo, si deve “ritenere esaurita anche la possibilità di utilizzare l’arma”. Ma da parte di chi? Dei privati cittadini che non possono ergersi a difensori dello Stato e/o Giustizieri della notte. O forse anche da parte di chi è armato proprio per impedire che i singoli cittadini sparino?
Perche se l’uso delle armi da parte delle forze di polizia si fonda non su una norma giuridica ben precisa bensì su una prassi discutibile seppur riconosciuta occorre affermare che tale uso è di per sé illegittimo sebbene tollerato e quindi con la decisione di oggi l’uso delle armi è oggettivamente vietato ma allo stesso tempo né è legittimata la “minaccia” sulla base di una “prassi” (!) che viene riconosciuta in capo a soggetti “esperti”, i quali però debbono fino all’ultimo astenersi dall’utilizzarla ricorrendo ad altri sistemi (quali?) che consentano di sventare o impedire le conseguenze ulteriori del reato (come?) senza ledere l’incolumità personale del reo.
Tutto chiaro?
Si capisce bene che tale decisione pone troppe incognite per spiegare un comportamento che era già previsto per legge e a cui semplicemente bastava farvi ricorso.
In definitiva se anche i principi cardini del nostro ordinamento costituzionale si piegano agli isterismi del politicamente corretto che dilaga nel contesto sociale odierno e affoga l’attuale classe politica, siamo di fronte ad uno Stato che abdica al proprio dovere di difendere i suoi cittadini nel nome di un non ben definito diritto dell’uomo o meglio dell’uomo criminale che va compreso, difeso e tutelato fino a consentirgli di usare illegittimamente un’arma verso colui che invece legittimamente la detiene ma che non può, per assurdo, mai farne uso.
Avvocato Massimiliano Chiuchiolo